Note per l’assemblea di
PASSIGNANO
di Anna
Falcone e Felice Besostri
La democrazia ha avuto il suo massimo sviluppo
nella ambito dello Stato nazionale, come anche il welfare: allargamento progressivo del diritto di voto fino al
suffragio universale libero, diretto e segreto, divisione dei poteri,
indipendenza della giurisdizione, tutela delle minoranze, principio di
uguaglianza, processi elettorali periodici e competitivi, allargamento
progressivo dei diritti di libertà individuali ai diritti sociali collettivi,
in particolare dopo la seconda guerra mondiale del XX° secolo.
L’integrazione economica su base continentale,
come la costruzione progressiva di una comunità europea, ha limitato la
sovranità degli Stati, come anche le sempre più numerose convenzioni
internazionali. Ciononostante questi ordinamenti giuridici non costituiscono di
per sé una limitazione dei diritti democratici, anzi spesso ne hanno garantito
l’estensione, come con la “Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle
Libertà Fondamentali” e più di recente la “Carta dei Diritti fondamentali
dell’Unione europea”. Pertanto, nel loro concreto sviluppo gli ordinamenti
sovranazionali ed internazionali, in sé, non rappresentano un pericolo per la democrazia,
semmai possono essere uno strumento per la sua estensione: hanno, infatti, una
dimensione parlamentare espressione dei parlamenti nazionali eletti a suffragio
universale, e i Parlamenti stessi sono comunque chiamati a ratificare le
convenzioni internazionali e le istituzioni sovranazionali (Consiglio d’Europa,
O.C.S.E, NATO e IN.CE); nel caso della UE, godono addirittura di una diretta
legittimazione popolare. Semmai si può rimproverare al Parlamento italiano di
non dedicare la necessaria attenzione all’attività delle delegazioni
parlamentari negli organismi internazionali e di non dedicare tempo alla fase
ascendente delle normative comunitarie, quando gli interessi nazionali
potrebbero essere meglio tutelati insieme al bilanciamento fra interessi dei
cittadini e spinte lobbistiche di altri poteri economici.
Il pericolo piuttosto viene da quelle
istituzioni di carattere economico, finanziario e commerciale (ad es. FMI),
nelle quali sono rappresentati i governi, con esclusione di ogni controllo e di
potere di indirizzo dei parlamenti nazionali. In taluni casi i Parlamenti
neppure hanno partecipato alla costituzione di tali istituzioni economiche
sovranazionali, come nel caso del OMC-WTO, benché abbiano poteri enormi di
limitazione della sovranità degli Stati membri. La sovranità politica degli
Stati è ulteriormente minacciata dalla globalizzazione economica e
dall’estensione di mercati finanziari, che quando sono regolati, lo sono da
organi dei singoli Stati (SEC, Consob e organismi analoghi per i mercati
finanziari e Authority antitrust per la tutela della concorrenza) o in misura
ridotta regional-continentali, ma non da un sistema globale di controlli
trasparenti e uniformi senza eccezioni, come accade per i paradisi fiscali. Non
è messa qui in discussione la libertà di commercio e di investimento se la
concorrenza è equa e la competizione non è alterata dalla mancanza di libertà
politiche e sindacali, da lavoro minorile generalizzato, da forme di lavoro
semi-forzato e dall’assenza di rispetto delle norme sulla sicurezza dei luoghi
di lavoro e di tutela ambientale.
I gruppi finanziari e le imprese multinazionali,
con la complicità o nell’indifferenza degli Stati dove hanno il loro quartier
generale, grazie ai mezzi di cui dispongono - superiori alle entrate iscritte
nei bilanci di molti Stati, o addirittura del loro PIL - sono in grado di
determinare le politiche economiche e sociali nazionali, anche contro gli
interessi delle popolazioni interessate, con i soli mezzi di pressione leciti.
Quando questi non fossero sufficienti, anche ricorrendo a pratiche corruttive,
a campagne di disinformazione attraverso i mezzi di comunicazione di massa,
fino agli estremi della destabilizzazione politica, senza fermarsi neppure
davanti alla guerra civile o a colpi di Stato.
I gruppi finanziari-industriali si sottraggono
ad ogni responsabilità per le loro azioni sia quando emettono titoli diventati
tossici (quelli fondati sui mutui sub-prime), ovvero privi di qualsivoglia base
reale (i titoli derivati rappresentano un valore multiplo di ‘n’ volte il PIL
mondiale) e la cui negoziazione è sottratta ad un mercato pubblico e
trasparente. Possono provocare crisi globali tali da costringere gli Stati ad
intervenire massicciamente con iniezioni di liquidità nel sistema bancario e creditizio o a sostegno delle
grandi imprese, senza ricevere o imporre alcuna contropartita: né di controllo
delle loro politiche, né di interruzione di pratiche rischiose, o di riduzione/eliminazione
dei premi ai loro manager, indipendentemente da risultati consolidati nel
tempo. Per colmo di paradosso, l’esposizione degli Stati, nella logica di
pubblicizzazione delle perdite dopo anni di incontrollata privatizzazione dei
profitti, anche se fittizi, o gonfiati da bolle speculative, ha portato a declassare
il rating del debito pubblico degli stessi Stati grazie ai giudizi di agenzie
poco avvertite sui titoli tossici, e la cui struttura di controllo lascia
grossi margini di dubbio sulla loro autonomia dagli interessi proprietari.
Il futuro della democrazia è strettamente legato
alle vicende economiche, proprio per l’intreccio esistente fra economia e
politica e per la commistione fra interesse pubblico e interesse privato, che
non possono essere liquidati con formulette del tipo “Più società e meno Stato”.
La società non è la stessa se prevale
l’individualismo egoista, ovvero sia una società di uomini e donne liberi e
uguali, se i valori condivisi sono quelli dell’arricchimento e del successo
personale ad ogni costo, ovvero quelli della solidarietà, quale che sia la
motivazione religiosa o laica che li ispira. Se la società si confonde col
mercato e il mercato con il sistema capitalista, e tutto fosse ridotto a una
merce che si può vendere o comprare − compresa la propria dignità − sarebbe
giusto domandare meno società e più responsabilità collettiva e pubblica.
Pubblico non è necessariamente sinonimo di statale, e non è la stessa cosa se
lo Stato è uno stato democratico o autoritario, se è uno Stato centralista o
articolato in autonomie territoriali, con un grande spazio per la cooperazione e il mutualismo ed altre
forme di autonomia organizzativa sociale, cioè di formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità (come sancisce l’art. 2 Cost.) con i connessi doveri di solidarietà
politica, economica e sociale.
Mettere al centro i rapporti tra la politica e
l’economia come fatto decisivo per le sorti della democrazie è l’insegnamento che
dobbiamo trarre dalla crisi e, soprattutto, da quello che ne è seguito, perché
mette in luce la dimensione planetaria − e quindi extraterritoriale − della
finanza, la limitatezza degli ordinamenti giuridici statual-nazionali e
l’inadeguatezza delle risposte regional-continentali come l’Unione Europea, frenata
dalla timidezza di passare ad una fase superiore di integrazione politica, cioè
a una compiuta forma di Stato sociale federale.
La debolezza della costruzione europea emerge
proprio in questa temperie di attacco al debito pubblico di alcuni Stati, come
attacco reso possibile dalla mancata istituzionalizzazione dell’Euro, cioè di
una moneta comune alle cui spalle non c’è un governo e una vera e propria banca
centrale, come prestatore di ultima istanza. Un’Europa federale con gli
strumenti degli Stati Uniti sarebbe stata troppo grande per essere oggetto di
un attacco speculativo. L’attacco alla Grecia ha dimostrato che (come) l’Europa
era (sia) un’entità non dotata di una governance
unitaria, determinata a difendere gli interessi dell’UE nel suo complesso,
ma di una conduzione bi-nazionale franco-tedesca. Un potere di fatto slegato da
una legittimazione democratica e da una reale condivisione delle scelte da
parte dei popoli europei e, pertanto, instabile, umorale e sottoposto alla
pressione di un’opinione pubblica spesso non informata, frammentata, non
pienamente consapevole della posta in gioco e, per di più, con interessi
economici sottostanti confliggenti.
Proprio la crisi ha mostrato la necessità di
fare un check-up alla Costituzione.
In Islanda un’assemblea elettiva di un migliaio cittadini ha nominato un
Consiglio Costituzionale di 25 membri, che ha già redatto un progetto di
Costituzione più robusta, volto a rimediare alla debolezza e vulnerabilità
della loro democrazia (La
Presidente del Consiglio Costituzionale Salvör Nordal: una
nuova Costituzione perché la crisi finanziaria ha dimostrato come “fosse debole
e vulnerabile la nostra democrazia”). Al contrario, in Europa le riforme
costituzionali invocate quale rimedio alla crisi democratica (monocameralismo,
premierato forte, leggi elettorali fortemente maggioritarie e
costituzionalizzazione del vincolo di bilancio in primis) mirano a limitare surrettiziamente gli spazi democratici
e la sovranità popolare, principio cardine della democrazia e presupposto
legittimante di ogni decisione pubblica.
Scelte importanti debbono essere prese con il
coinvolgimento della popolazione, come in Islanda: è stato un referendum a
respingere il salvataggio delle banche responsabili della crisi (in realtà dei
detentori stranieri dei loro titoli, ormai privi di valore). L’argomento della
complessità dei problemi, tale da non poter essere decisi da un referendum
(consultazione popolare), non tiene a fronte del fatto che i sacrifici
avrebbero dovuto essere sopportati da quelli che “non avrebbero capito”. La
democrazia rappresentativa, che si è costruita in un processo secolare, è
capace di far fronte a qualsivoglia problema, sempre che la decisione sia
preceduta da un ampio dibattito pubblico, dentro e fuori dalle istituzioni, con
la partecipazione di una pubblica opinione informata. Tra i presupposti (essenziali,
infatti,) di una democrazia funzionante vi è la completezza e la trasparenza
dell’informazione, cioè media indipendenti e non al servizio di interessi
particolari, e un servizio pubblico di radio-televisione non al servizio del
governo o di un sistema politico arroccato nella propria difesa, come se fosse
una “casta”. Non vi è libertà di scelta senza libera circolazione delle idee,
libertà di stampa e, non ultima, libertà dal bisogno.
Per questi motivi è sempre più necessario, in un
sistema mediatico-informativo controllato da gruppi economici e di pressione
chiaramente orientati alla conservazione del proprio potere, garantire la
libertà delle rete internet, a livello nazionale e globale, e la libertà di
circolazione delle idee su canali liberi e paralleli a cui i cittadini abbiamo
libero accesso, non più solo come fruitori, ma come autori delle informazioni.
Nell’impossibilità di incidere direttamente sulla libertà dei media l’unica
risposta possibile è quella di implementarne quantomeno il pluralismo delle
voci. Per questi motivi, e parallelamente, la democrazia richiede che tra i
cittadini non vi siano tali differenze di reddito e di possibilità di ascesa
sociale, da creare una minoranza di privilegiati in grado di controllare i
poteri pubblici e i mezzi d’informazione: senza i condizionamenti culturali e
psicologici imposti dai gruppi dominanti non si spiega il paradosso, per cui le
elezioni non si vincono senza l’apporto degli strati più poveri, ovvero senza
la loro astensione dai processi elettorali a causa della frustrazione delle
loro aspettative.
Il modello classico di ‘democrazia
rappresentativa’ è sotto accusa per molti aspetti, critiche soltanto in parte
fondate, in parte evidentemente strumentali e dirette alla ‘rottamazione della
democrazia’, piuttosto che alla sua implementazione e perfezionamento. Da un
lato, la si accusa di non essere all’altezza dei problemi sempre più complessi,
che richiedono capacità decisionale rapida, e si chiede il superamento delle procedure
considerate una ‘perdita di tempo’ e si auspica la supremazia di tecnici ed
esperti rispetto a politici generici, dall’altro di non aver risolto i problemi
degli strati più svantaggiati. Rispetto ad essi la classe politica è, anzi,
percepita come sempre più distante. Peggio, è spesso da questi ‘bisogni’ che
trae larghe sacche di consenso, secondo uno scambio scellerato di voti contro
‘piaceri’, che inquina alla base la libertà di scelta dei propri rappresentanti
ed impedisce una selezione virtuosa e meritocratica della classe dirigente,
soprattutto nelle aree più depresse del Paese.
La crisi dei partiti non è estranea a questa
disaffezione e scollamento fra volontà popolare e decisioni di vertice, sia per
i criteri di reclutamento del proprio personale dirigente, che dei
rappresentanti nelle istituzioni. Nel frattempo, con un processo ben descritto
da Colin Crouch nel suo libro “Postdemocrazia”,
i gruppi dirigenti dei partiti si legano a gruppi di pressione o di interesse,
con la mediazione dei tecnici ed esperti di reciproca fiducia, che ne
determinano le scelte politiche in misura molto superiore alla volontà degli
iscritti o alle decisioni degli organi statutari.
In Italia la situazione è aggravata dalla
mancanza di una legge organica sui partiti politici in attuazione dell’art. 49
della Costituzione, che ne garantisca il funzionamento interno secondo il c.d.
“metodo democratico”, la trasparenza del finanziamento, i controlli
giurisdizionali e contabili. Un colpo di grazia alla credibilità democratica è
stato inferto dalla legge elettorale vigente. Questa, inserendo il meccanismo
delle liste ‘bloccate’ e preconfezionate dall’alto nelle Segreterie politiche,
ha reciso ogni rapporto, anche formale, tra elettori e rappresentanza,
determinando la scomparsa persino del nome dei candidati sulla scheda
elettorale e la sostituzione con il nome
del capo politico, secondo una simulazione di elezione diretta del
Premier vietata dalla Costituzione. Di più, l’attribuzione di un premio di
maggioranza abnorme − perché svincolato da ogni quorum in voti o in seggi − ha definitivamente archiviato il
modello di rappresentanza democratica proporzionale dei cittadini a cui era
chiaramente ispirata la
Costituzione e l’uguaglianza e la libertà del voto
(prevalenza del voto utile rispetto all’adesione politico-programmatica). Tale
meccanismo resiste malgrado le censure della Corte Costituzionale formulate fin
dal 2008 con le sentenze n. 15 e 16.
I guasti di quella legge sono sotto i nostri
occhi: il Parlamento non agisce nell’interesse della Nazione, perché non la Nazione li ha fatti
eleggere, ma la benevolenza dei capi partito. Ne discendono a cascata gravi
anomalie, come il superamento del divieto di mandato imperativo, il blocco nel
ricambio della classe dirigente, il proliferare di una legislazione
protezionistica della ‘casta’, gravi limiti all’autonomia dei singoli
parlamentari, svuotamento delle funzioni legislative del Parlamento, ridotto a
camera di registrazione dei provvedimenti governativi.
L’indignazione, anche nei confronti dei
privilegi, sia veri che presunti, della “casta” alimenta il rischio che non
prevalgano movimenti di riforma della politica, ma di rivolta antipolitica,
base di partenza di involuzioni autoritarie ammantate da ‘tecnocrazia’. Se i
costi della democrazia son confusi con quelli della politica i risparmi si
fanno a danno degli organi rappresentativi, con la riduzione del numero degli
eletti o degli organi elettivi, invece che dei loro compensi, o del costo degli
apparati. Così si formulano richieste contradditorie come il dimezzamento dei
parlamentari e la scelta da parte degli elettori dei propri rappresentanti, che
presuppone collegi piccoli ovvero la riduzione mediante concentrazione dei
Comuni impossibile con la contestuale previsione di un minor numero dei
consiglieri e leggi elettorali maggioritarie: i Comuni più piccoli che si
unissero potrebbero non avere rappresentanza nel futuro Consiglio comunale
unificato.
I
limiti della democrazia sono soltanto i limiti alla democrazia, che
si rafforza soltanto se si espande e si estende a tutti gli aspetti della vita
organizzata, dalle assemblee delle società per azioni, alle associazioni di
categoria e agli utenti dei servizi pubblici e ai consumatori in genere, con
istituti di partecipazione dei cittadini al controllo e alla gestione delle
pubbliche istituzioni (decentramento amministrativo, bilancio partecipato, class action e azioni popolari con
acceso alla giustizia amministrativa a costi contenuti in caso di tutela di
interessi collettivi al paesaggio, all’ambiente, alla salute, all’istruzione,
all’informazione e alla trasparenza dell’azione amministrativa). La democrazia rappresentativa
va riaffermata ripristinando il rapporto reale e diretto fra eletti ed elettori
e rafforzata con l’estensione di istituti di democrazia partecipativa e
diretta, che contrapporre è errato: la manipolazione della volontà dei
cittadini può avvenire sia alterando il processo elettorale, come nelle
assemblee o nei cortei, sempre in balia di minoranze decise ed organizzate.
Quest’anno ha visto le masse di cittadini
protagoniste di cambiamenti epocali come nella Primavera araba e in questo
caldo autunno americano, nel quale gli obiettivi anti-sistema sono chiari ed
evidenti, con una determinazione senza precedenti del movimento “Noi siamo il 99 per cento”. Proprio
questa constatazione, che una minoranza comanda e la maggioranza paga per
tutti, è la miglior testimonianza a favore della democrazia rappresentativa,
che si regge sul principio una persona un voto: il 99% dovrebbe prevalere
sull’1%, come il 10% delle famiglie più ricche, che in Italia controlla il 47%
della ricchezza nazionale, dovrebbe concorrere in proporzione al risanamento
delle finanze pubbliche, cui comunque il 90% restante − se la democrazia non
fosse teorica − potrebbero legalmente costringere la minoranza con leggi
perfettamente in sintonia con la Costituzione (art. 53- “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della
loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di
progressività”).
In un contesto di integrazione di democrazia
rappresentativa e partecipativa, partiti e movimenti hanno specifici campi
d’azione, anche se non esclusivi almeno preferenziali o elettivi. Nei loro diversi
ambiti e funzioni devono poter interagire salvaguardando le loro autonomie come
del resto accade per i sindacati, che non sono contrapposti ma integrati in un
sistema dialettico democratico come portatori in istanze e interessi specifici.
I comitati referendari sui beni comuni e contro il nucleare hanno dimostrato
l’efficacia di movimenti con obiettivi chiari e concreti e perciò percepiti
come più vicini alle istanze popolari e ad un modello organizzativo aperto e
democratico. Più difficile e tormentata è la vita di movimenti compositi, privi
di un gruppo direttivo riconosciuto e perciò autorevole, come gli “Indignati del 15 ottobre”. Il movimento,
nato il Spagna e diffusosi fra giovani e
meno giovani di tutto il mondo, è stata l’unica reazione politica
globale alla crisi ed alla prevaricazione del sistema capitalistico sugli
interessi statali e sui diritti dei cittadini. Ciononostante le variabili
nazionali della protesta, la diversa composizione del movimento e l’assenza di
un coordinamento interno e sovranazionale ne ha condizionato, finora,
l’incisività e la capacità di risultato. È il caso del movimento italiano che,
arrivato alla manifestazione del 15 Ottobre numerosissimo, ma poco organizzato
ed attrezzato − anche rispetto a gruppi
estremisti minoritari determinati a far degenerare in violenza il corteo − è
stato travolto dalle strumentalizzazioni mediatiche, tanto da compromettere
nell’immediato il raggiungimento dei suoi obiettivi.
Le riforme costituzionali e della legge
elettorale non sono state poste al centro dell’azione politica della sinistra,
ne sono dimostrazione la raffazzonata e strumentale modifica del Titolo V della
parte seconda della Costituzione. Inoltre sempre la sinistra ha fornito il modello
elettorale del “porcellum” tramite la
legge elettorale regionale toscana. Soprattutto l’opposizione ha condiviso le
scelte maggioritarie e bipolari del sistema elettorale, subordinando le
assemblee all’esecutivo e perciò rovesciando i principi di più di 200 anni di
evoluzione democratica. La governabilità è diventata prima una priorità,
prevalente rispetto alla rappresentanza, poi un’ossessione, cui tutto
sacrificare. La stessa elezione diretta dei vertici esecutivi non comportava
necessariamente una così drastica limitazione − in misura senza paragoni in
Europa − delle competenze dei Consigli comunali, provinciali e regionali, e,
peggio ancora, di legare la loro durata alla volontà del capo dell’esecutivo.
L’improvvisazione ha raggiunto il suo apice con la discussione sulle Province,
cresciute di numero con la complicità di tutti per opportunismo locale,
costituzionalizzate nel 2001 ed ora da abolire sotto la spinta di un’opinione
pubblica aizzata dai mezzi d’informazione: in un tale contesto sarà difficile
discutere di riduzione delle province, delle funzioni di un ente intermedio tra
Comuni e Regione e di nuove forme associative tra comuni.
Proposte per il dibattito:
1) La nostra Costituzione non ha bisogno di
essere stravolta, come tentato dal governo, con un progetto fortunatamente
respinto dal popolo italiano nel referendum costituzionale del 2006, ma di
essere innanzi tutto attuate e, dove necessario, adeguata all’evoluzione della
realtà sociale. Centrale è il tema dei diritti e della loro completa attuazione
accanto all’adempimento dei doveri.
2) La dettagliata elencazione dei diritti, anche
nei documenti sovranazionali, è sempre più
inversamente proporzionale alla loro attuazione. Il ‘condizionamento
economico’ poi alla attuazione dei diritti sociali è l’argomento che ne ha
trasformato il carattere da diritti fondamentali a diritti eventuali.
L’attuazione del federalismo fiscale, poi − secondo un modello che disconosce
reali misure perequative a tutela dei diritti alla salute, all’istruzione,
all’assistenza sociale ecc. − ha ulteriormente frantumato la ‘cittadinanza
sociale’ e abrogato di fatto il principio di solidarietà. In ciò si iscrive la
scarsa vincolatività del principio, soprattutto per ciò che attiene
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e
sociale (art. 2 Cost.) e l’inattuato principio di proporzionalità
nell’imposizione fiscale su redditi e patrimoni.
3) Per tali motivi, risulta improrogabile, dopo
più di 60 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, pretenderne l’attuazione,
chiedendo l’abolizione di ogni distinzione tra norme di immediata applicazione
e norme programmatiche, tra ‘vincolatività
piena’ delle leggi e ‘valore di mero indirizzo’ dei principi costituzionali. L’attuazione
dei principi e delle norme programmatiche deve essere − com’era nella volontà
dei Costituenti – obiettivo preliminare e primario per ogni programma di
governo e per ogni indirizzo politico, indipendentemente dall’orientamento e
dalle coalizioni. Le forze politiche devono concorrere fra loro, semmai, all’elaborazione
delle strategie più efficaci per la
migliore attuazione del ‘Programma costituzionale’, senza il quale ogni ‘programma
politico’ è monco e delegittimato. In ciò sta la prima, indifferibile
responsabilità di uno Stato realmento democratico, di un moderno Stato sociale
di diritto, della sua classe politica.
4) Il carattere della ‘programmaticità’ deve
abbandonare definitivamente anche alcuni fra i diritti fondamentali dalla cui
garanzia effettiva dipende l’esistenza stessa dello Stato democratico: a
partire dal lavoro. Alla priorità di una crescita cieca, che non bada alla
effettiva distribuzione della ricchezza e alle pari opportunità nel garantire
il “pieno sviluppo della persona umana” (art. 3 Cost.) deve sostituirsi quella
del lavoro e di un nuovo modello di produzione e di crescita economica e
sociale. Per questo, accanto all’attuazione del modello di imprenditorialità
partecipata (art 45 Cost.:“Ai fini della
elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della
produzione, la Repubblica
riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti
stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”), è necessario introdurre
nuovi diritti fondamentali, come il diritto alla protezione dell’ambiente (come
naturale complemento della tutela del paesaggio, art. 9, e della salute, art.
32 Cost.) e i diritti all’accesso alle reti informatiche e ad una informazione
completa e corretta, quale necessario complemento alle libertà di informazione,
di stampa, di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.). Lo stesso sforzo di
coordinata attuazione deve prodursi per la maggior parte delle norme in materia
di rapporti economici e sociali, in cui la nostra Costituzione è
all’avanguardia (artt. 35, 36, 37, 38, 41, 42, 43, 44, 45 e 46), ma soffre di
una ‘disapplicazione’ normativa e di un’interpretazione della giurisprudenza, estremamente
timida e non adeguata al rango dei valori costituzionali protetti.
5) Costituzionalizzazione della categoria dei
‘beni comuni”, con relativo vincolo di inalienabilità e divieto di sfruttamento
economico in contrasto con l’interesse dei cittadini e della popolazione.
6) Introduzione della categoria delle ‘leggi
organiche’, sul modello di quelle francesi e spagnole, leggi che per dover essere
approvate con la maggioranza assoluta delle Camere si collocano tra le leggi
costituzionali e le leggi ordinarie e dovrebbero regolare con una temporale
maggiore stabilità le riforme di settore, come ad esempio l’istruzione, il
sistema fiscale, l’ordinamento dei partiti ed elettorale, il sistema delle
autonomie territoriali e delle leggi finanziarie e di bilancio, per fare alcuni
esempi.
7) No alla costituzionalizzazione del ‘pareggio
di bilancio’ perché introduce pericolose rigidità nella politica economica,
limita le potenzialità di crescita del Paese in periodi di trend positivo, blocca in origine ogni spesa sociale in periodi di
crisi, tacciandola come costo piuttosto che come investimento e funzione
ineliminabile delle politiche statali. Peggio, ribalta il rapporto democratico
cittadino-Stato-mercato, sovraordinando le ragioni di un ‘monetarismo assoluto’
alla sovranità popolare, le scelte lobbistiche alla volontà dei cittadini e al
potere politico. Una più rigorosa applicazione dell’art. 81, 4° comma Cost. − “Ogni altra legge che importi nuove o
maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte” − è più
che sufficiente ad impedire la crescita dell’indebitamento pubblico.
8) riforma del controllo di costituzionalità con
previsione di ricorso diretto dei cittadini in caso di violazione di diritti
costituzionali fondamentali sul modello spagnolo e tedesco e con la previsione,
in caso di soluzioni multiple all’eccepita incostituzionalità di norme, che la Corte Costituzionale
fissi un termine per l’efficacia della decisione di incostituzionalità affinché
il legislatore possa deliberare. Assegnare alla Corte Costituzionale i ricorsi
contro le decisioni delle Camere sull’eleggibilità dei loro componenti ai sensi
dell’art. 66 Cost. ovvero in caso di inerzia delle stesse a pronunciarsi in un
termine prefissato e, sul modello tedesco, di potersi pronunciare d’ufficio
sulla costituzionalità delle norme elettorali applicabili.
9) Riduzione del numero dei parlamentari, ma non
in modo da compromettere un effettivo legame con il territorio e gli elettori
dei candidati, soprattutto riforma delle indennità e dei rimborsi, con la
riduzione della parte fissa rispetto a quella variabile in modo da collegarla a
un’effettiva e comprovata partecipazione alle attività parlamentari, compresi i
lavori in commissione e la partecipazione alle votazioni. Fissazione di
indennità e rimborsi in ammontare analogo a quello di paesi di dimensione
paragonabile a quella italiana (Francia, Germania e Gran Bretagna).
10) Differenziazione dei compiti e competenze di
Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, con la sola Camera dei Deputati
responsabile della fiducia al Governo e Camera di ultima decisione in caso di
differenze tra i due rami del Parlamento, tranne che nel caso si incida sulle competenze
concorrenti di Stato e Regioni (art. 117 c. 3 Cost.).
11) Riduzione del numero dei consiglieri
regionali da rapportare alla popolazione e indennità commisurate alla entrate
proprie delle singole regioni. Riduzione per accorpamento delle Provincie in
ragione delle effettive esigenze del territorio e ridefinizione delle loro
funzioni.
12) Previsione di esame obbligatorio da parte
delle Camere dei progetti di legge di iniziativa popolare e possibilità, in
caso di inerzia, che i promotori possano provocare un referendum confermativo/approvativo
se richiesto dallo stesso numero di elettori per i referendum abrogativi (art.
75 Cost.) e con facoltà per il Parlamento e/o il Governo di sottoporre un
progetto alternativo sul modello svizzero.
13) Legge di attuazione degli articoli 39 e 49
Cost. su Sindacati e Partiti, con Statuto di rilevanza pubblica, obbligo di
registrazione e con previsione di requisiti minimi per la registrazione
(congressi periodici, statuti a base democratica, possibilità di ricorso alle
giurisdizione degli iscritti in caso di violazione delle norme statutarie,
controlli della Corte dei Conti − o di Authority ad hoc − su bilanci e finanziamenti).
14) Riforma del sistema elettorale, abrogazione
del ‘porcellum’ (di sospetta
incostituzionalità) e ripristino della possibilità di scelta dell’elettore sui
candidati. Attuazione dell’art. 51 Cost. in relazione alla parità di accesso di
uomini e donne alle cariche elettive pubbliche. Progressivo inserimento del
‘voto elettronico’ e allargamento delle sezioni elettorali per impedire il
riscontro dei voti espressi nello spoglio.
15) Contrarietà assoluta all’abrogazione del
divieto di mandato imperativo( art. 67 Cost.” Ogni
membro del Parlamento rappresenta la
Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”),
tuttavia previsione, in caso di cambio di gruppo parlamentare di prima
iscrizione, che un numero predeterminato per legge degli elettori della
circoscrizione elettorale possa chiedere la decadenza/revoca dal mandato
parlamentare con votazione estesa al corpo elettorale del collegio e
contestuale elezione suppletiva ovvero con subentro di candidato della lista
originaria, mediante applicazione degli stessi criteri di sostituzione in caso
di rinuncia o dimissioni del candidato proclamato eletto.